di Sonia Campa
I gatti domestici sono da sempre oggetto di contese tra esseri umani, tanto che nel corso della Storia sono passati da essere oggetto di culto a personificazione del male estremo e del diabolico.
In qualche misura questa dicotomia sopravvive ai giorni nostri, soprattutto nelle comunità in cui la popolazione è divisa tra chi valorizza i gatti come compagni e controllori di specie infestanti e chi valorizza la fauna selvatica e vede i gatti come predatori superflui ed animali invasivi.
Non entrerò nel merito degli studi circa l’impatto del gatto domestico sulle popolazioni selvatiche perché ritengo che questa sia una discussione scientifica e, come tale, debba essere portata avanti nelle sedi opportune. Inoltre, vorrei evitare le polarizzazioni tipiche degli ambienti social dove questo tema è spesso usato come strumento di battaglia ideologica laddove, invece, la scienza è un processo in continuo divenire, le cui acquisizioni vengono continuamente messe al vaglio di nuove evidenze.
Io qui mi limiterò ad attingere al mio lavoro che riguarda la valutazione e la pianificazione di interventi di natura cognitivo-relazionale che coinvolgano il gatto domestico, sperando che le mie osservazioni possano contribuire ad arricchire ed articolare la discussione pubblica, squarciando il velo dell’ovvio che ostacola qualunque approfondimento.
Per alcuni dei detrattori, i gatti all’esterno non dovrebbero proprio esistere perché, in quanto domestici, avrebbero perso il loro posto nell’ecosistema “naturale”; secondo altri, di posizioni più moderate, essendocene troppi in giro (dove questo “troppi”, però, non è mai stato quantificato empiricamente ma è sempre frutto di stime probabilistiche), almeno i gatti di proprietà dovrebbero essere tenuti in casa. Per entrambe le parti, i gatti andrebbero comunque confinati ogni volta che fosse possibile, ossia ogni volta che sulla loro esistenza si possa esercitare un qualsivoglia controllo.
D’altra parte, i proprietari dei gatti sono spesso preoccupati del benessere psico-fisico dei loro protetti ed alcuni riportano di non essere in grado di confinarli, nemmeno volendo, pena l’emergere di stress e malessere generalizzato [1].
Questo accade perché, all’atto pratico, l’idea di condurre qualunque gatto di proprietà ad uno stile di vita esclusivamente indoor non è così automatico come si potrebbe pensare. Non basta chiudere la porta e non basta arricchire l’ambiente o giocare col gatto.
Ogni animale che nasce porta in sé un corredo genetico che lo rende adatto a vivere in un certo modo e in un certo contesto. Adeguarsi ad un ambiente o ad uno stile di vita diverso rispetto a quello d’elezione può generare difficoltà di adattamento, alterazioni del comportamento, malattia.
Nessun animale nasce predisposto, selezionato, a vivere chiuso fra le quattro mura di una casa umana, nessun animale ha nella sua biologia (nei suoi organi sensoriali, nei suoi processi percettivi, in quelli elaborativi e decisionali) un’informazione di questo tipo. I gatti, addirittura, hanno un repertorio fisiologico e comportamentale ancora molto vicino al loro antenato selvatico [2], a riprova del fatto che la domesticazione non li ha modificati al punto da differenziarli dai loro progenitori (ergo, è tutt’altro che un processo monolitico di esclusione dal mondo naturale).
Ma supponiamo pure di voler trascurare questo “dettaglio” evoluzionistico, visto che molti detrattori dei gatti sono convinti che la domesticazione abbia irreversibilmente modificato (e non lo ha fatto) la genetica di questo animale negandogli, quindi, il suo posto nel sistema naturale.
Bisognerà comunque confrontarsi con il fatto che anche solo da un punto di vista sociale i gatti, tutti, si inseriscono in un continuum di socialità [3] che va dal gatto rinselvatichito - che vive di espedienti e completamente emancipato dall’uomo - al gatto “di casa” che sonnecchia sul nostro letto. Nel mezzo esistono infinite sfumature e non tutte sono in grado di adattarsi né ad un contesto casalingo né tanto meno alla prossimità fisica e relazionale con gli esseri umani e con altri animali. La possibilità che i gatti domestici - inclusi quelli di proprietà - possano condurre una vita a stretto contatto con gli esseri umani dipende da un mix di genetica e di esperienze precoci, va appreso nelle prime settimane di vita, non è una capacità generalizzabile alla popolazione complessiva per il solo fatto di essere tassonomicamente etichettata come “domestica”.
Le origini contano
In genere si pensa che la presenza assidua di una ciotola piena e la sostituzione delle opportunità di caccia con il gioco siano tutto ciò di cui un gatto necessiti per un adattamento di successo tra le pareti domestiche, aderendo ad una visione comportamentista novecentesca che usa il comportamento manifesto come unico parametro del benessere animale. Ma, di nuovo, in forza della loro varietà comportamentale, i gatti non sono tutti ugualmente adattabili e non si rivelano sempre compatibili con le case umane. Gatti che nascono all’aperto o con delle forti propensioni innate all’esplorazione e al controllo territoriale, anche se nati in casa sono i candidati preferenziali a sviluppare alterazioni del comportamento dovute all’impossibilità di esprimere a pieno le loro spinte motivazionali. A volte queste alterazioni non sono visibili nel soggetto giovane ma emergono, alterate, nello stadio adulto, altre volte sono immediate. Il rischio è l’abbandono dell’animale che può tradursi in un suo ritorno in quello stesso ambiente “naturale” da cui lo si voleva escludere.
Le persone che amano i gatti tendono ad averne più d’uno e questo genera molto frequentemente conflitti dovuti alla competizione, agli spazi risicati, all’incompatibilità caratteriale (sempre perché la socialità dei gatti ha dinamiche tutt’altro che scontate). In moltissime famiglie le convivenze sono possibili solo grazie al fatto che i gatti possono evitare i conflitti reciproci distanziandosi opportunamente attraverso un accesso all’esterno, in modo da sedare o dissolvere le tensioni [11]. Se quei gatti venissero forzati ad uno spazio confinato h24, la convivenza sarebbe molto difficile, se non impossibile. E, di nuovo, questo si tradurrebbe in soggetti abbandonati o liberati dal controllo umano.
Alcuni studi di medicina comportamentale hanno messo in relazione la salute psico-fisica dei gatti domestici con lo stile di vita, evidenziando come un regime indoor comporti un aumentato di rischio di obesità e di sviluppare alterazioni comportamentali quali eliminazioni inappropriate, comportamenti distruttivi ed auto-lesivi, problemi di dipendenza, aggressione [6,8,9,10].
A questa obiezione i detrattori del gatto libero sostengono spesso che la tutela della specie selvatiche val bene il malessere del singolo. Quello che si trascura è che qui non si tratta di “singoli” ma del fatto che certe strategie gestionali non siano generalizzabili verso una specie con le caratteristiche comportamentali e fisiologiche del gatto domestico. L’ideale sarebbe trovare una o più soluzioni che consentano di tutelare sia i gatti sia le altre specie, stando nel perimetro delle normali dinamiche ecologiche, ovvero comprendendo cosa significa tutela: davvero possiamo pretendere che i gatti smettano di predare in assoluto? O non dovremmo forse considerare questa come una variabile da includere (trattandola) nella comprensione delle dinamiche ecologiche attuali?
Spesso le stime sull’impatto dei gatti vengono eseguite prendendo in considerazione una efficienza ottimale su un’aspettativa di vita di una dozzina d’anni. Tuttavia, se e quanto un gatto, anche uno che acceda all’esterno, sia un predatore efficace dipende da un complesso di fattori [4,7] che vanno dall’età effettiva all’attitudine personale (alcuni gatti di proprietà sono semplicemente troppo pigri o poco capaci per spendersi in un’attività costosa energeticamente come la caccia) alla qualità del territorio: moltissimi gatti vivono in zone derattizzate chimicamente dall’uomo, con altissimi tassi di urbanizzazione ed ecosistemi urbani poverissimi in termini faunistici, al punto che alcuni targetizzano (cioè portano a casa come bottini di caccia) peluche, guanti da giardinaggio, spazzatura. Non predano affatto e non perché abbiano sterminato la qualunque ma perché c’è ben poco su cui orientarsi.
Una migliore comprensione dei livelli di flessibilità e mantenimento del comportamento predatorio del gatto è inderogabile, così come capire i fattori genetici, comportamentali, ontologici, fisiologici e ambientali che determinano l’attitudine e le preferenze predatorie per evitare l’assunzione di strategie draconiane generalizzate.
Gli studi sul temperamento
Anche gli studi sul temperamento del gatto domestico dimostrano sempre più chiaramente un vecchio adagio popolare: i gatti sono tutti diversi uno dall’altro. I gatti più sicuri e determinati sembrano avere territori più vasti degli individui timidi e sottomessi, quindi anche il loro impatto sarà differente [4].
Esperienza sul campo
Per quanto possa valere, anche la mia esperienza sul campo mi dimostra quanto poco sia ovvio pensare di confinare qualunque gatto tra quattro pareti domestiche: la quasi totalità delle persone che invocano il mio intervento come consulente comportamentale ha gatti che vivono indoor. Si potrebbe pensare che queste persone siano semplicemente più sensibili rispetto a quelle che li fanno uscire ed per questo che mi consultano. Può darsi, ma se così fosse dovrei avere una casistica variegata e invece le persone che mi contattano lo fanno perché i gatti hanno effettivamente sviluppato delle alterazioni comportamentali che sono spesso riconducibili proprio a forme disfunzionali di adattamento al regime casalingo.
Qualcuno potrà dire che queste famiglie non si impegnano abbastanza per il loro gatto ma mi sento di difenderle a spada tratta: quando viene a mancare corrispondenza tra i bisogni di un animale e quel che l’ambiente fisico e sociale ha la possibilità di offrire, la buona volontà può non bastare per mantenere l’equilibrio psico-fisico.
La tutela delle specie selvatiche non può passare dal contenimento coatto del gatto domestico, nemmeno se di proprietà, perché questa è una misura non generalizzabile, etologicamente insostenibile, oltre che eticamente discutibile (un aspetto, quest’ultimo, sempre snobbato).
Non possiamo inoltre trascurare che siamo europei, non americani o australiani o neozelandesi, il gatto libero è parte della nostra cultura, ha sempre abitato i nostri ambienti, sia sociali che ecologici, il rapporto con lui è il frutto di una co-evoluzione vecchia quanto la pratica agricola.
Le alternative per ridurre l’impatto del gatto domestico sono poco esplorate ma alcuni risultati già ci sono: trattenerlo di notte quando la sua efficienza è massimamente espressa, alimentarlo con una dieta ad alto valore proteico, fornire molte occasioni di gioco predatorio quando è in casa sono tutte strategie che hanno dimostrato di funzionare sui gatti che hanno un accesso all’esterno [5].
E poi lavorare su un più responsabile e, soprattutto, normato contenimento dei numeri, una pratica che - almeno in Italia - non ha mai trovato da parte delle istituzioni la serietà e l’impegno che merita, avendo preferito delegare la gestione della demografia felina allo spontaneismo del volontariato.
Ciò di cui avremmo bisogno è lo sviluppo di strategie di conservazione cat-friendly che da una parte riducano l’avversione di alcune persone nei confronti dei gatti e dall’altra vadano incontro alla sensibilità di coloro che desiderano gestire responsabilmente il loro gatto ma che devono anche fare i conti con le implicazioni della sua insopprimibile identità di specie.
E’ inoltre ragionevole pensare che la soluzione dei problemi alla tutela della fauna selvatica non sia ascrivibile solo alla gestione dei gatti ma anche alle responsabilità umane in termini di erosione degli habitat, disboscamenti, inquinamento, urbanizzazione, cambiamento climatico. Purtroppo, ogni volta che si prova ad ampliare lo sguardo, si viene accusati di benaltrismo, cioè di voler spostare il focus di un problema additandone un altro non correlato. Sarebbe il famoso “e allora i marò?”.
Io, tuttavia, credo sia miope non tenere presente che se prendi una polmonite, è ragionevole dare priorità al trattamento dell’infezione, non solo della febbre a botte di paracetamolo. Il paracetamolo si potrà anche assumerlo per abbassare la temperatura corporea ma l’infezione sarà ancora lì, da affrontare. E magari, nel frattempo, si sarà anche aggravata.
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